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Quarta Lezione

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1Quarta Lezione Empty Quarta Lezione Mar Dic 07, 2010 12:10 am

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AVVISO: A CAUSA DI PROBLEMI SULLA PAGINA WEB LA FORMA LOGICA DI ALCUNE ESPRESSIONI , PRESENTI NELLA RELAZIONE, NON SONO STATE RIPORTATE IN MODO CORRETTO( anche se è comunque possibile comprenderle, essendo state spiegate dallo stesso relatore).

Sui linguaggi artificiali del Novecento
Paolo Valore
Universi tà degl i Studi di Milano
paolo.valore@unimi.it
Prima di cominciare il mio intervento, vorrei sottoporre al lettore tre precisazioni, al fine di chiarire il
senso e i limiti del contributo.
a) La prima precisazione è sul termine “linguaggi”.
Un linguaggio verrà qui inteso come un sistema di formalizzazione e/o comunicazione mediante segni
grafici e/o fonici, finiti e arbitrari, non necessariamente dotato di una semantica intesa (ad esempio, il
linguaggio logico del primo ordine). Secondo tale concezione, una lingua è un sottoinsieme dell’insieme
dei linguaggi, in cui è sempre possibile distinguere tra piano sintattico e fonico e piano semantico, la cui
semantica corretta è solo quella intesa (cioè non può essere drasticamente reinterpretata senza
abbandonare il linguaggio che si sta usando) e che ammette una comunità di parlanti. Il presente
contributo presenta, molto brevemente, alcuni casi paradigmatici di linguaggi artificiali, senza limitarsi
al caso delle lingue propriamente dette.
b) Merita, inoltre, qualche parola l’opposizione di “artificiale” a “naturale”, che sono termini qui usati
senza alcuna retorica; nello specifico, senza supporre che “artificiale” sia un’espressione negativa e “naturale” un’espressione positiva.
“Artificiale” viene inteso qui nel senso di MONDADORID’AGOSTINO 1997: «artificiali in quanto
deliberatamente costruiti per uno scopo particolare. Essi vengono contrapposti ai linguaggi così detti
naturali, che sono invece il prodotto di una lunga evoluzione storica» (p. 40). Relativamente ai
linguaggi e alle lingue, la caratterizzazione “artificiale” è comunque da intendersi come un predicato vago. Un predicato vago, come “alto” o “caldo”, sembra ammettere casi sfumati e graduali; inoltre, in caso di predicati vaghi, non siamo mai in grado di indicare una cesura tra un predicato e il suo contrario (almeno secondo l’interpretazione standard della vaghezza epistemica, cfr. PAGANINI 2008). Ad esempio, se un uomo di 2 metri è alto e se un centimetro non fa la differenza tra un uomo alto e un uomo basso, allora un uomo di 1 metro e 99 cm è alto. Il problema è che sarà alto anche un uomo di 1 metro e 98 cm, e così via fino a sostenere che un uomo di un metro è alto. Quello che siamo in grado di dire è che un uomo di due metri è senz’altro più alto di un uomo di un metro, ma in quale centimetro risieda la differenza tra alto e basso è una domanda a cui non sappiamo dare risposta (e, con tutta probabilità, non ci interessa poi neanche un granché). Anche il predicato “artificiale” ammette gradualità e casi sfumati: l’italiano è una lingua naturale? Probabilmente, diremmo che l’italiano è più
naturale (in qualche senso del termine) di un linguaggio di programmazione. E ancora: la riforma dell’ortografia del tedesco è artificiale? Quello che dovremmo ricordare è che l’opposizione di “artificiale” e “naturale” è, in ogni caso, sfumata e graduale e andrebbe presa cum grano salis (al punto
che taluni ne hanno addirittura negato la sensatezza: cfr. BAR HILLEL 1970: 273).
c) Userò con una certa elasticità anche la caratterizzazione temporale: il contributo farà cenno soprattutto ai linguaggi che si sono affermati nel Novecento, anche se costruiti e/o pianificati nel secolo precedente.
E veniamo ora ai linguaggi artificiali del Novecento.
A cosa dovrebbero servire dei linguaggi “artificiali” (cioè pianificati per uno scopo)? Tra le molte applicazioni di tali linguaggi, mi sembra utile ricordare almeno le seguenti: si possono costruire lingue per comunicare (con equità), linguaggi per ottenere maggiore perspicuità linguistica, linguaggi per generare algoritmi (linguaggi di programmazione) e, infine, linguaggi per la ricerca teorica. Questo intervento tralascerà, come caso troppo particolare e tecnico, i linguaggi di programmazione.
Iniziamo, dunque, dalle lingue per comunicare con equità.
Un precedente estremamente interessante, per quanto fallimentare, di lingua per comunicare è il Solresol di François Sudre (1827). L’idea di base è molto semplice: supposto che la musica sia più “universale” delle lingue etniche, si immagina di sfruttare le note per una nuova lingua ausiliaria internazionale. Tra le caratteristiche, per certi versi curiose, di tale lingua, meritano un cenno: la categorizzazione semantica mediante la prima nota di un’espressione linguistica (tutti i termini di una
certa categoria cominceranno con la medesima nota, che funziona come indicatore per inventariare gli oggetti del nostro dominio) e il principio di inversione per gli antinomi (l’inversione dell’ordine delle note segnala la negazione del campo semantico di un’espressione linguistica). Una lingua del genere non può funzionare per vari motivi pratici, ai quali si aggiunge almeno un importante motivo filosofico(o, più propriamente, ontologico). Tra i motivi pratici, segnalati a più riprese dalla letteratura (cfr., ad esempio, ECO 1993) ricordo i seguenti: a parte l’idea, estremamente provinciale, che il nostro modo di segmentare il continuum dei suoni in esattamente sette note sia l’unico possibile, l’eccessiva parsimonia dell’alfabeto ci costringe a generare stringhe sempre più lunghe e, alla fine, ingestibili per essere
effettivamente adoperate; è troppo difficile (per non dire impossibile) conciliare il principio della categoria semantica e il principio dell’inversione, a meno di limitare ulteriormente la nostra libertà di
generare espressioni a partire da un alfabeto già povero in partenza. Il motivo filosofico, per così dire a
priori, risiede invece nell’ingenuità di presupporre un unico modo di caratterizzare gli oggetti del
dominio, un modo “naturale” e “universale”, indipendente dalla lingua che si sta parlando. La stessa
ingenuità aveva caratterizzato la stagione delle cosiddette “lingue filosofiche”, il cui caso paradigmatico
è la lingua di John Wilkins. Il problema ontologico di questi progetti è che l’idea di una categorizzazione unica delle entità di cui parliamo presuppone che alcuni predicati generalissimi dovrebbero essere fondamentali e imprescindibili, in modo che sia possibile riprodurre i generi naturali di una tassonomia universale. Se pure una qualche struttura categoriale è imprescindibile per avere
oggetti di un linguaggio, possiamo tranquillamente abbandonare la richiesta di una struttura categoriale
particolare che sia, in qualche senso del termine, naturale (o perché legata agli schemi grammaticali o ai presunti unici modi legittimi di articolare concetti). Le categorie di appartenenza dagli oggetti di cui parliamo possono essere concepite esclusivamente come strategie alternative di ordinamento (cfr.VALORE 2009, cap. 14).
Le lingue per comunicare nascono quando si abbandona questa pretesa di categorizzazione universale.
Tralasciando vari esperimenti che scomparvero coi loro inventori, la prima lingua “artificiale” di questo gruppo può essere considerata il Volapük di Johann Martin Schleyer (1879). Si tratta di una lingua per certi versi agglutinante, con un vocabolario a posteriori modificato, che ammette la flessione sia in quanto distingue i casi nella declinazione di sostantivi e aggettivi sia in quanto coniuga i verbi distinguendo le varie persone. Nonostante il notevole successo (effimero), tale lingua, che, a differenza
del Solresol, può funzionare, non risulta essere più conveniente di una qualunque lingua etnica (a parte,
forse, la neutralità). Gli aspetti più sconvenienti che caratterizzano il Volapük sono la proprietà del
glossoteta sulla lingua che lui stesso ha creato e l’impossibilità di ottenere una competenza attiva o
passiva in tempi ragionevolmente rapidi. Le modifiche, per lo più arbitrarie, del lessico a posteriori rendono, infatti, irriconoscibili le radici per ogni comunità di parlanti. Paradossalmente, potremmo dire
che il Volapük persegue l’equità rendendo svantaggioso per tutti l’apprendimento del lessico. Ad esempio: modificare “Berg” (montagna) in “bel” rende la radice oscura sia per un parlante di una lingua germanica sia per un parlante di una lingua neolatina. Inoltre, molte complicazioni morfologiche sembrano davvero inutili o, per lo meno, non necessarie. Del tutto diverso è il caso dell’Esperanto iniziato da Ludwik Lazar Zamenhof (1887): anche in questo caso siamo di fronte ad una lingua
agglutinante, ma la morfologia è essenziale e la sintassi minimale. Inoltre, il parlante è sorretto da una
chiara trasparenza del ruolo morfosintattico, indicato dalle terminazioni (ad esempio, a,e,i,o).
L’idea vincente dell’Esperanto è il lessico, pensato per una competenza attiva molto precoce: la generazione di
nuove espressioni è estremamente potente. Inoltre, notevole è anche la rinuncia, da parte del glossoteta,
dei diritti di proprietà sulla lingua, che diventa un “bene comune”. L’Esperanto si propone, in questo modo, come autentica lingua ponte che non sostituisce le lingue etniche, funziona però esattamente come una lingua etnica, anche se è estremamente più semplice da imparare.
L’Esperanto, in quanto lingua per comunicare per equità, ha saputo distinguersi dai progetti delle “lingue filosofiche” e, in particolare, si distingue dai linguaggi per la perspicuità a tutti i costi. Tale perspicuità può essere ottenuta non con una lingua ausiliare internazionale (come ancora pensavano di fare Wilkins o Sudre, con l’idea del linguaggio “universale”), bensì con linguaggi pensati appositamente per tale scopo.
Il linguaggio paradigmatico, in questo caso, è la logica del primo ordine. Il suo alfabeto consiste di: variabili per individui (x, y, z, … eventualmente con indici); costanti per individui (a, b, c, …eventualmente con indici); costanti proposizionali (p, q, r, …); costanti predicative (P, Q, R, …
eventualmente con indici); connettivi; quantificatori; punteggiatura e parentesi (si possono aggiungere eventualmente, dei simboli per funzioni). Sono necessarie, inoltre, delle regole “grammaticali”, cioè delle regole per ottenere formule ben formate, che ci mettono in condizione di distinguere tra espressioni corrette del linguaggio e sequenze di segni che non appartengono al linguaggio. Infine, si richiedono regole di derivazione, per ottenere nuove formule da formule già accettate.
A cosa può servire un linguaggio del genere (che può apparire del tutto astruso al profano)? Tra le molte
applicazioni possibili, la traduzione del linguaggio ordinario al fine di ottenere maggiore chiarezza è
una delle più notevoli. Prendiamo il seguente enunciato molto banale: “Qualcosa è quadrato e qualcosa è
rotondo”. Se ne potrebbe dedurre che “Qualcosa è quadrato e rotondo”, il che è sicuramente scorretto.
Con la distinzione delle variabili rendiamo evidente che sostenendo “Qualcosa è quadrato e qualcosa è rotondo”, selezioniamo insiemi di individui diversi del nostro dominio: “^x (Qx) & ^y (Ry)”, escludendo dunque che “Qualcosa è quadrato e rotondo”, cioè: “^x (Qx & Rx)”, sia una conseguenza logica dell’enunciato precedente. Data la banalità dell’esempio, si potrebbe pensare che la traduzione dei nostri enunciati nel linguaggio logico del primo ordine non sia poi così utile, ma in moltissimi casi
l’ambiguità di ciò che diciamo non è così manifesta (cfr. Sainsbury 2002). Inoltre, il linguaggio del primo ordine si rivela molto utile per la ricerca teorica (ad esempio, in ontologia formale).
Prima di considerare l’applicazione di questo linguaggio nel caso della ricerca teorica, merita un cenno il LINCOS del matematico olandese Hans Freudenthal (cfr. FREUDENTHAL 1960). Viene presentato come una lingua ponte, un’effettiva forma di comunicazione il più possibile neutrale, tanto da poter essereusata, in linea di principio, tra forme di intelligenza non necessariamente umane (ad esempio, per
comunicare con presunte intelligenze di altri pianeti), ma i suoi pregi maggiori risiedono nelle possibilità d’uso per la ricerca teorica (nello specifico, per la riflessione sulla natura del linguaggio). Il linguaggio è costruito a partire da un numero minimo di concetti fondamentali primitivi (=, >, <, sì, no,…) e la definizione esplicita dei termini derivati. Il punto essenziale del linguaggio è che dovrebbe
essere puramente sintattico, senza alcuna pragmatica e, in particolare, senza la possibilità di introdurre
mediante ostensione (cioè puntamento diretto) i campi semantici delle espressioni derivate. Nella
versione scritta, ha il seguente aspetto: “#Ha Inq Hb. Utr V(y, t, ti ) . . t2<t<ti<t3 _ t ti y Inq Hbt1t2 Fi t ` \\ Hb Inq Ha. Fal #”.
Come nel caso del linguaggio universale musicale di Sudre, anche il linguaggio universale logicomatematico
di Freudenthal è destinato al fallimento. Non è possibile, infatti, una definizione esplicita e
senza presupposti: lo stesso simbolo elementare “=” acquista significati diversi in contesti pragmatici
diversi e non ammette quindi una definizione induttiva, per mera esemplificazione ripetuta un numero
sufficiente di volte (cfr. LATRONICO 2008 e VALORE 2010). Una lingua, per essere tale, richiede una pragmatica minimale: ad esempio, informazione non eccedente o carità interpretativa. Allora a cosa può servire un linguaggio del genere? Ad indagare le possibilità di costruzione di un linguaggio con presupposti minimali, in modo puramente sintattico e a mostrare, in dettaglio, i rapporti tra linguaggio e pragmatica. Il LINCOS mostra che, in questo modo, otteniamo una potenza espressiva elementare e,
soprattutto, che, per immaginare un linguaggio, per quanto neutrale e universale, non possiamo non presupporre un certo tipo di razionalità particolare (ad esempio, la coerenza nell’applicazione delle definizioni per induzione).
Il caso più interessante di linguaggio per la ricerca teorica è però di nuovo rappresentato dalla logica del
primo ordine. L’idea della parafrasi del linguaggio ordinario in un linguaggio artificiale per risolvere
questioni filosofiche risale almeno a Leibniz, ma la sua applicazione più esplicita nel Novecento è stata
proposta da Bertand Russell (cfr. RUSSELL 1905), per risolvere il riferimento a presunte entità insistenti.
Enunciati come “L’attuale Re di Francia è calvo” non sembrano poter essere né veri né falsi; nel caso in
cui fossero falsi, la loro negazione (nel caso dell’esempio: “L’attuale Re di Francia ha i capelli”)
dovrebbe essere vera, il che non sembra. Un caso ancora più imbarazzante si ha negli enunciati di non esistenza, che vorremmo essere veri; ad esempio: “Pegaso non esiste” (cfr. QUINE 1948). In quest’ultimo caso, se Pegaso non esiste, di cosa stiamo parlando? Si noti che non possiamo rispondere che ci riferiamo all’idea di un cavallo alato, perché non vogliamo dire che non esiste l’idea di un cavallo del
genere, bensì che non esiste il cavallo (che è una cosa ben diversa dalla sua idea). Se non parliamo di nulla, come possiamo dire qualcosa di vero?
La soluzione di questi problemi, in realtà apparenti, richiede la traduzione di tali enunciati in un linguaggio artificiale che consenta di mettere in luce la forma logica che sta al di sotto della superficie del linguaggio ordinario. “L’attuale Re di Francia ha i capelli” non asserisce una proprietà (“essere calvo”) di un oggetto (“L’attuale Re di Francia”), bensì tre proprietà di un individuo (che figura come valore di una variabile quantificata). La forma logica non è, come si potrebbe pensare, “A non gode della proprietà P”; la forma logica è: “^x (Px & ]y (Py \ x=y) & Qx)”, cioè: “esiste qualcosa che
gode della proprietà di essere attualmente Re in Francia, è l’unico individuo ad avere tale proprietà e gode della proprietà di essere calvo”. Come si può vedere, l’enunciato “tradotto” è molto diverso dall’enunciato espresso nel linguaggio ordinario. Tale enunciato è falso, ma lo è non perché assegna una proprietà ad un oggetto inesistente, bensì perché richiede proprietà che non sono congiuntamente esemplificate da nessun individuo del dominio. Lo stesso accade con “Pegaso non esiste”, che non
asserisce una proprietà (“la non esistenza”) di un oggetto (Pegaso), bensì che “~^x (Px)”, cioè che
“non esiste, nel dominio, un individuo che gode della proprietà di essere Pegaso”. Il che significa che
stiamo parlando di cosa esiste e di come è fatto, non di oggetti inesistenti. Di nuovo, nessun mistero.
Ma, per poterlo dire, siamo stati costretti a cambiare linguaggio.
La pianificazione e la creazione di lingue e linguaggi in generale si è mostrata molto utile nel Novecento: essa può offrire una soluzione al problema della pluralità delle lingue e dell’equità linguistica; consente di indagare la nostra libertà di composizione di simboli e i vincoli che derivano dai nostri schemi concettuali; può chiarire questioni astratte in indagini quali l’ontologia formale o i problemi metafisici di teorie matematiche (ad esempio, l’assunzione di entità sgradite nella teoria degli
insiemi). Di fronte a tali applicazioni, sempre più sofisticate, non riesco davvero a prendere sul serio chi
sostiene che «le ipotesi di linguaggi artificiali – si pensi, tra l’altro, al tentativo di una lingua costruita a
tavolino, come l’esperanto – sono sempre fallite. Il linguaggio è un sistema molto complesso e raffinato,
dotato di grande flessibilità e duttilità» (MASSARO 2005: 36). Come se un linguaggio che venga costruito
per uno scopo particolare e non sia il risultato di un’evoluzione storica (per lo più casuale) sia, necessariamente, meno complesso o meno raffinato, meno flessibile o meno duttile.


Bibliografia
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Sainsbury, M. (2002). “Logica filosofica”. In: D’AGOSTINIVASSALLO 2002: 112-156.
Valore, P. (2009). L’inventario del mondo. Guida allo studio dell’ontologia. Torino: UTET.
Valore, P. (2010). “Cosa c’è che non va nell'idea di una lingua cosmica. Il caso del LINCOS di Freudenthal”. In: ASTORI 2010: 67-76.
Visentini B. (1970, a cura di). Linguaggi nella società e nella tecnica. Milano: Edizioni di Comunità.

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